Roma, nun fa la stupida stasera

domenica 25 settembre 2011

Oggi abbiamo messo in pratica la 'linea dura'; dopo giorni trascorsi a cercare di arginare i capricci a tavola alla fine dei quali, nonostante le canzoncine, nonostante i giochi simbolici e di ruolo tutti tesi al consumo di qualche forchettata in più di carne o pasta, il piatto rimane quasi pieno e Elisa scende dalla sedia e s’avvia, trionfante, verso i suoi giochi o a rivedere per l’ennesima volta Ponyo o Totoro (se è in fase amarcord).

Ieri sera a tavola, dinanzi a due fette di polpettone praticamente intatte e in seguito al balletto buffo di noi tre, mamma papà e bimbetta, una mia cara amica della quale tengo molto in considerazione l’opinione, mi ha detto: “Sei troppo accomodante”. Ho sorriso, annuito. È vero, sono accomodante perché risento del fatto che a scuola mangia sempre tutto e vorrei che anche a casa fosse lo stesso, perché mi impegno a cercare sempre di preparare a puntino tutti i piatti che gradisce di più, perché vorrei che mangiasse le famigerate verdure, consumasse la frutta… tutte cose che le mamme in generale gradiscono, insomma.

La linea dura allora! A tavola davanti a un piatto di tagliatelle al pomodoro Elisa pizzica con i rebbi della forchetta bricioline di parmigiano; io la invito più e più volte ad assaggiare le tagliatelle senza successo, intono le tagliatelle di nonna Pina, Massimo incoraggia l’assaggio decantando le lodi della pastasciutta, io sto per prendere la strada del “questo boccone è da parte del tuo amico pipistrello” quando ecco l’epifania: sei troppo accomodante… Le dico allora: “Elisa, io conto fino a cinque, se non avrai per allora nemmeno assaggiato la pasta ti metto nel lettino e non mi importa se mangi o meno”. Lei mi risponde: “No! Non contare! Mangio!” Ma poi mi guarda furbetta e fa per scendere. Allora ci riprovo, senza risultati. Alché mi alzo la prendo in braccio e la porto a letto. Lei piange e invoca Dumbo, la mamma di Dumbo, Junior e diversi altri membri del parterre dei suoi amici più o meno animati. Io a stento resisto dal cedere immediatamente. Finisco il mio piatto di pasta mentre La bimba non cede. E alla fine cedo io, perché sì, sono accomodante.

Ci mettiamo sul lettone e mentre il pupazzo moralizzatore dall’alto del suo cappellino sulle ventitré e forte delle sue dimensioni da personaggino Lego si lancia in dissertazioni sulla necessità e proficuità dell’ubbidire a mamma e papà, una voce dolcissima entra dalla finestra “portace tutte le stelle, più brillarelle che c’hai, e un friccico de luna tutta pe’ noi!”. Una delle finestre del cortile è in festa: “Guarda! È la lupa co’ Romolo e Remo! E quello è il Campidoglio”. C’è un servizio sulla città e nonna e nipotino dell’appartamento di fianco ne sono entusiasti.

Io ascolto, Elisa mi dice: “scusa mamma”. Io penso che la porterò al parco oggi, ma sul tardi. Vorrei riuscire a farle vedere un friccico de luna ora che le giornate s’accorciano.

Grasso è bello?

mercoledì 21 settembre 2011

Ritorno a scrivere dopo un anno (!) sulle pagine di questo blog e lo faccio con un raccontino che avevo scritto con l'intenzione di partecipare a un concorso a tema. Ho preso l'impegno formale con me stessa di scrivere con continuità su queste pagine perché sostanzialmente ne ho voglia (la formalità dell'impegno cade da sé con questa premessa...); ho cambiato tema, quello precedente mi sembrava ridondante. A presto dunque e buona lettura!


Mi ritroverò a pesare un quintale; perché la mia tiroide si fa i cazzi suoi senza tenere presente che sono io che la ospito; mi dovrebbe perlomeno un po' di puntualità. lo strofinaccio profuma di sapone di Marsiglia, li lavo solo con quel tipo di sapone. Niente lavatrice, niente additivi disinfettanti, niente sbiancanti ottici. Il cibo è sacro, non va contaminato con porcherie fasulle.

Mi hanno parlato di una spezia originale e buffa, sembra un gelso bianco, ma più allungato e stretto, pepe lungo si chiama. È pure grigio, in realtà non sembra un gelso bianco, però pare che con le fragole si sposi bene per cui oggi preparerò dei dolcetti. In generale ne preparo 20, perché la teglia da forno per i muffin tanti buchi ha; 10 li mangio subito, bollenti e 'sti cavoli del balletto grottesco che ne consegue, gli altri se non viene nessuno a rompere li mangerò freddi, mentre guardo un telefilm in streaming in lingua coi sottotitoli di quelli che per la loro mediocrità mi fanno sentire geniale; magari con un bel bicchiere di latte freddo di frigo che in estate è l'ideale, così come peraltro d'inverno.

Le cosce con l'estate prendono a strusciare l'una contro l'altra ed è un gran casino mettere le gonne, sebbene di metterle non me ne freghi nulla. Qualche soluzione l'ho provata, giusto per indossarle ogni tanto, in fondo le ho pagate un sacco di soldi. La crema Nivea, quella col petrolio. Pare che il petrolio sia cancerogeno però è grasso a sufficienza per ungere ben bene e a lungo. Ma non è mai abbastanza e entrare in un negozio d'abbigliamento per far finta di provare un capo solo per entrare in camerino e ripetere l'operazione “spalmaggio” non è sempre comodo. Specie se fa un caldo tremendo e tu sudi come un salame al sole. Perché sei grassa. Non avresti di questi problemi altrimenti. Sul divano sembra che il problema non esista. Le cosce sudano e pure il didietro. Lo senti perché si va creando una sorta di irreale fresco da sudore. Quando ti alzi è stacchi la stoffa dalla pelle è una goduria, una ventata di aria fredda ti rimette al mondo. Poi però è una tortura da cui proteggersi perché non è bello fare i conti con la pelle gonfia e rossa; ogni passo è una sofferenza. Allora provi col talco. Il talco mentolato pare l'abbiano inventato per alleviare il prurito da varicella. Bravi inventori del talco mentolato!, mi salvate la vita. Sebbene dopo poco la questione riccioli di talco tra le pieghe della pelle delicata si faccia pressante. I mutandoni, quelli sì; però cazzo! Ho trent'anni. Mi fa vomitare l'idea di andarmene a passeggio con i mutandoni sotto la gonna. A quel punto metto i pantaloni. Anche se l'idea di avere un motivo per vomitare non mi faccia schifo. Riuscissi a vomitare un po' di quel che mangio non sarebbe tutta questa tragedia.

Per questo amo l'inverno e per un po' ho amato anche i pantaloni di lino e l'alga combu. Ché se ne metti un po' nella minestra cavolo se ti depura!. Solo che io minestre non ne mangio, fatta eccezione per quella di cipolle alla francese, per cui l'alga sta ancora nel pensile stretto in cucina. A mia suocera ho detto che l'ho usata tutta. Lei non se l'è bevuta. Sono grassa come prima.

Non mi muovo, non prego, non piango

giovedì 30 settembre 2010

Nei momenti d’urgenza, nei momenti di dolore, cambio. Il mio sangue si fa ingranaggio, i miei muscoli scattano sferragliando, la mia mente diventa un sistema binario.

Qualche giorno fa parlavo con delle amiche della fuggevolezza dei ricordi. È necessario fissarli, quanto più possibile rischiararli. Ne cercavo qualcuno e si è affacciato prepotente questo.

Non mi muovo, non prego –non conosco Dio- non piango; ricordo.

È mattino, il telefono squilla, io rispondo. È mio padre. Mio padre delega sempre mia madre alle telefonate quotidiane, se chiama ha un motivo e quel motivo deve essere urgente. Il tono è quello classico di mio padre: molto profondo, chiaro, senza strascichi. “Il nonno è morto” mi dice “quando parti?”.

Parto quello stesso pomeriggio, è inutile che io risponda. Lo sa.

L’autobus puzza dell’aria secca risputata dalle aspirapolvere. L’hanno pulito di recente. Non c’è nessuno seduto di fianco a me. Provo a distendermi ma ormai la trasformazione ha avuto luogo: sono meccanica, rigida. Rimango confinata sul mio sedile, le mani sotto alle cosce, lo sguardo fisso al finestrino. Sono sette ore; passeranno in fretta.

Quando scendo ho le gambe intorpidite. Mio padre mi aspetta, accenna un sorriso e mi abbraccia. Poi una volta in macchina gli chiedo “mamma è a casa?” e lui di rimando “No, è dal nonno… andiamo lì anche noi”. È dal nonno? Vorrei dirgli “papà, il nonno è morto” ma non lo faccio, mi limito ad aggiungere “Andiamo da nonna, chi altro c’è?” “Tutti” e mi guarda come se stesse ripercorrendo con la mente i volti dei suoi fratelli, dei suoi nipoti, di quelli che ci aspettano; e di suo padre. Lo leggo nei suoi occhi così nocciola da virare sul giallo. Chiari.

A casa di nonna la cucina è gremita. Dal soggiorno mi sfiorano e raggiungono dei sussurri lievi. Dovrei andare di là. E lo faccio. Mio nonno m’appare minuto, magrissimo; molto più magro di come lo ricordassi un paio di mesi prima. A coprirlo un velo bianco fermato, arricciato, in più punti. Do un bacio a mia nonna che sta lì seduta e tra tutte le cose che potrei dire chiedo come mai il velo abbia quei punti. Hanno cercato in tutti i negozi del paese un velo neutro, senza trovarlo. Questo era il migliore tra gli altri, aveva solo degli angeli qua e là, ma si poteva rimediare nascondendoli con qualche punto. Ora sembravano rose. Mio nonno non credeva in Dio. Non voleva croci o angeli. Rifuggiva i sacramenti. Era la persona più cristiana che abbia mai conosciuto. Le figlie più volte nei momenti più prossimi alla fine gli hanno chiesto se ci avesse ripensato, se avesse paura. Non ne aveva. Non ci ripensava.

Mi raccontano della forza di mio padre che era lì con lui quella mattina. La conosco, ne vado fiera. Le pareti sono fredde, m’appoggio ora sull’una ora sull’altra, la schiena rifugge. Ho i brividi. La cristalliera profuma di zucchero e miele. Una sensazione color ambra m’avvolge e ristora.

Torno a casa con mia madre per riposare qualche ora. Mio padre resta. L’indomani mattina le mie zie sono molto più turbate. Mi aggiro per le stanze con la mente vuota. Arrivano quattro uomini molto eleganti; devono chiudere la bara. Mi avvicino alla nonna, le dico di non guardare perché temo che poi non dimenticherà mai quell’immagine. Non guardo neanch’io, ma sento ed è lacerante.

Una bella bandiera rossa arriva in nostro aiuto, è come se alleggerisse l’aria, come se ci soccorresse. Risaliamo fino alla piazza e lì ci mettiamo attorno, in cerchio. La piazza è piena di persone, molte non le conosco. I singhiozzi delle mie zie rompono il silenzio. Io dondolo sulle gambe e mi mordo le labbra. Il sindaco racconta di che persona unica fosse mio nonno, della sua forza, della sua coerenza e del suo coraggio. Io ricordo i suoi modi fermi, la sua tenera premura.

La banda del paese intona l’Internazionale, seguiamo mio nonno, alcuni canticchiano altri sventolano le bandiere rosse. Io guardo i miei piedi. Il sole s’insinua tra le spalle della gente, supera le mie. Tocca ora un piede, ora l’altro, ritmico. Comincio a sentire.

“Devi prenderti cura dei defunti” mi dice mio padre qualche mese dopo. È vero. Al cimitero incontro mio zio, è indispettito da alcuni fiori di plastica che ha trovato sulla tomba. Li sta sostituendo con dei fiori freschi; è su una scala, gli porgo i miei. Nel farlo sollevo lo sguardo uno stormo di uccelli che non conosco mi rapisce. “Sono crocioni” mi dice mio zio "arrivano dal Nord Europa”. Io non mi muovo, non prego –non conosco Dio- non piango; ricordo.

Dalla finestra è entrata, come un ladro, la luna

venerdì 27 agosto 2010

Torno a scrivere. Stavolta mi ci vuole davvero; sono a casa in un torrido soggiorno, mucchi di libri aspettano una recensione che li gratifichi e consideri, Elisa, sdraiata sul tappeto, gratifica me con qualche "mamma!" squillante e risate buffe. Roma non è mai stata così inospitale.

Siamo stati in vacanza fino a pochi giorni fa; vacanze semplici, che potessero essere adatte alla bimba. Poteva essere una vacanza morbida, di quelle in cui torni a casa con un paio di chili in più, un'abbronzatura dorata e la mente libera. Così non è stato, non del tutto almeno.

Come la tessera che perde l'equilibrio nel serpente del domino, delle persone si sono introdotte nella casa delle vacanze, nel luogo assolato del riposo dal lavoro e dalla quotidianità, provocando in me una rovinosa caduta a catena.

Non mi interessano le cose o i soldi che hanno preso. Non mi interessa nemmeno del muro sventrato con cui devo ancora fare i conti qui a Roma (sì, hanno preso le chiavi e il documento, rubato una moto al vicino e si sono precipitati anche qui, sia mai che si limitassero a derubarci una volta sola...), quello che mi turba, ancora e a distanza di giorni, è la sensazione di precarietà che costoro mi hanno appiccicato addosso. Credo che molte altre volte dovrò addormentarmi con la sensazione che chiunque possa entrare nella mia casa e, senza che io mi accorga di nulla, prendere, violare, distruggere.
Così com'è andata è andata bene; me lo dicono tutti. Forse è vero; certamente lo è.

Massimo, nel suo spirito non convenzionale, mi suggerisce riflessioni sul valore nullo delle cose preziose e l'ossimoro mi intriga e convince; io, nei pomeriggi sulla spiaggia, quando il sole ostinato s'appuntava appena sull'orizzonte rifiutandosi di tramontare, sentivo la provvisorietà e la forza delle dune alle mie spalle. Il profumo dei gigli marini m'avvolgeva. Sulla spiaggia poche persone, Elisa e Massimo giocano sul bagnasciuga; si riflettono nello specchio della risacca che, come un velo di tulle, ricopre di lucentezza la sabbia. Non è immediato credere che dei fiori così effimeri e delicati come i gigli di mare tengano assieme i granelli finissimi di sabbia, riescano a dare un senso di stabilità a quanto di più provvisorio e instabile possa esserci.

Sento la forza delle dune alle mie spalle e so che non riuscirò a farmi ispirare dal confronto. Non ci sono gigli marini né artigli di strega a tenere assieme il mio cuore.


Dalla finestra è entrata
come un ladro, la luna,
e nella luna mi guardo,
seduto alla finestra.

Se bussassi alla porta,
ecco, certo uscirei,
e mi consolerebbe
se sapessi vedermi
nel furtivo sgusciare
via da questa finestra.

Ma qui dentro c'è un ladro
ed io temo davvero
d'essere proprio io
questo ladro che è dentro.

(Asaf Hâlet Çelebi)

Ricordiamoci di dar l'acqua al basilico

venerdì 18 giugno 2010

Riprendo a scrivere su questo mio blog e lo faccio alle 8.45. Elisa e Massimo sono usciti da poco. Oggi è l'ultimo giorno d'asilo. La tv è accesa; è strano. Va in onda Uno Mattina. La conduttrice femmina (mi si perdonerà la brutalità della distinzione ma per me in tv c'è il conduttore femmina e quello maschio; nessun'altra distinzione per me: e credo che, vista la loro professionalità, li scelgano con questo mio stesso criterio), la conduttrice femmina, dicevo, fa delle boccucce stupite e strette stupefatta dinanzi al profumo del basilico e, ancora, sbalordita alla sorprendente novità che le piante vadano annaffiate: "ohhhh!".

Sono stanca e quindi irritabile e la conduttrice femmina, poverina, non c'entra nulla. Mi dicono che dovrei trovare più tempo da dedicare a me stessa. Va molto di moda questo "tempo da dedicare a sé stesse"; per me ha assunto da un bel pezzo un sapore stantio e la consistenza di un cliché: nulla.

Oggi ho trovato del tempo per me stessa, finalmente, sono andata a passare due ore di relax dal parrucchiere, oppure a farmi coccolare dall'estetista, o (e qui siamo all'apice del cliché) in una Spa per il massaggio sensoriale.
Avevi due ore da dedicare al relax e hai deciso di trascorrerle nei fumi tossici di un salone da parrucchiere a sfogliare riviste il cui solo scopo è il disboscamento? Avevi due ore e sei andata a farti torturare dall'estetista (non so a voi ma a me la ceretta fa male...) o a cercare un legame con te stessa in presenza di un perfetto sconosciuto che ti suggerisce come le tue spalle abbiano bisogno del suo tocco?

Sono stanca e quindi irritabile e di conseguenza intollerante. Ciascuno passa il "tempo da dedicare a sé stesso" come gli pare.

Io per esempio amo passeggiare, ma non per le strade di Roma. Purtroppo per quanto splendide le strade della città in cui vivo non riescono a rilassarmi. Preferirei passeggiare in campagna ma il "tempo da dedicare a me stessa" dovrebbe essere almeno una mezza giornata. Allora, caduta l'opzione passeggiata, trascorro il mio tempo libero a ricordare.

L'esercizio del ricordo è molto piacevole, catartico persino. questa mattina sono in Calabria, nei vicoli stretti, mai bagnati dal sole, che portano a casa di mia nonna. È maggio, l'aria è fresca, il mio sguardo scorre, più veloce del passo, sui muri screpolati e in pietra. Non sono più le stesse pietre del tempo della mia infanzia ma la speranza di intravedere la tana del topino dei denti ancora non si spegne. Ostinati e incerti gli ombelichi di Venere s'abbarbicano alle crepe umide. Quando ero bambina si faceva a gara a chi trovasse la piantina con più bulbi tra le radici. Queste piantine ne hanno molti. Non mi ricordo se vincessi o meno, ci lasciavamo guidare da una sorta di istinto magico; certo eravamo ingenui giacché il numero varia a seconda della grandezza delle foglie... la mia di oggi ne ha 7. Scrollo qualche pezzettino di terra dalle mani. Sono arrivata.

Sorridi, che tu lo voglia o meno!

lunedì 15 marzo 2010

A un mese di distanza torno a trovare in questo mio piccolo spazio un po' di tregua.
Sono tornata ieri da una settimana di vacanza (splendida) tra la neve; la mia bambina ha imparato a fare l'urlo di battaglia di Geronimo; questa mattina ho visto l'alba bevendo un gustosissimo caffelatte. Eppure questo pomeriggio c'è stato qualcosa che mi ha turbata, innervosita, delusa.

Stavo tornando a casa con Elisa dall'asilo. Avevo sulle labbra dei granellini di zucchero rimasti lì grazie al caffè che le cuoche della scuola mi avevano appena offerto e che io avevo bevuto in maniera rocambolesca cercando di sfuggire alle mosse azzardate della bimba. Le avevo appena scoperte e succhiandole via ero concentrata, felice.

Sollevo la testa giusto in tempo per scorgere lo sguardo di un uomo scorrere velocemente dal passeggino a me, furbo. In braccio teneva una bambina di due, tre anni al massimo sudicia e stracca. La piccola si era addormentata sulla sua lurida spalla e lui con uno strattone e delle parole durissime l'aveva scossa: doveva mostrarsi allegra e vispa a me. Dopo lo strattone la mano tesa a chiedermi l'elemosina e la bimba in lacrime e poi scossa dai singhiozzi.

Rispondo male, mi allontano per poi fermarmi a controllare. La bambina continua a piangere e lui la passa in malo modo a una donna che lo seguiva a ruota con un passeggino stracolmo di oggetti vari tra i quali trovava posto un altro bambino.
Io non sono brava a mantenere la calma. Non so se per rabbia o perché fosse giusto così, ho preso il cellulare intenzionata ad avvisare i carabinieri. Solo che ho composto il numero sbagliato e ho raccontato inutilmente tutta la storia a un ragazzo che risponde al 118.

Quando ho riattaccato con un pugno di mosche in mano i quattro erano spariti.
Mi sento arrabbiata, impotente, sciocca e grigia.

compleanni

martedì 16 febbraio 2010

Questa notte non ho dormito molto. Risentivo della serata malinconica cui mi ero volontariamente votata. Oggi è il mio compleanno e, caso raro, ho tutti i miei parenti attorno. So bene che se sono qui così numerosi è soprattutto per Elisa che domani compie un anno, ma mi fa piacere pensare che siano qui anche per me.

In passato per i miei compleanni senesi ricevevo un biglietto con ben ripiegate dentro cinquantamila lire.
Le mettevo da parte per il cinema. Riuscivo ad andarci anche più di sette volte. Ce n'era uno in cui amavo andare da sola: il Cinema Nuovo Pendola.
Era vicino a casa mia. Stava in cima a una salita molto ripida, per niente amichevole come spesso sono le strade senesi, che, ingannevoli, ti accolgono e riparano tra mura calde di un morbido bruno, trascinandoti in sensazioni antiche e al contempo lasciandoti senza fiato, soffocato da aria umida e stantia.
Ci andavo da sola perché un tempo ero restia alla condivisione delle impressioni, preferivo appuntare su un taccuino lo sgomento lasciatomi addosso dallo scampanio celeste in coda a un film che ho amato molto, Le onde del destino, di Lars von Trier: decollamento di un re piuttosto che sua incoronazione.
Ascoltavo molto, mi facevo delle idee. Non so quando io abbia realmente iniziato a condividere o perlomeno a cercare di farlo.

Però sono contenta di averlo fatto.